Treasure hunt.
Pezzi e frammenti raccolti in un viaggio senza fine, messi insieme come stringhe di DNA, o ninnoli pendenti da un braccialetto. Amorevolmente. Una moltitudine di donne che surfano una moltitudine di mondi. Rovistano in bauli pieni di cose, trovando oggetti appartenenti a diversi individui con storie diverse: costumi da bagno anni Cinquanta e vestaglie, polo immense e gonne sontuose, pantaloni mega e sottovesti impalpabili.
Giocano, sezionano, adottano, adattano. Con gioia. Magnificano, distorcono, distruggono, glorificano. Spontaneamente.
La loro idea di bellezza è un cocktail bizzarro: agitato, non mescolato. Gli ingredienti sono numerosi: echi couture e languori anni Venti, pose baloon, insolenza da skater, raver e flapper. Lo spirito è inquisitivo. Nulla è dato per scontato, o preso come è. Interni e costruzioni occhieggiano come attraverso raggi X. Cuciture e crini sono esposti, gli orli tagliati al vivo e sfilacciati.
Nuovi equilibri derivano da un mutamento di angolo, o di grandangolo. Pezzi maschili si modellano sul corpo femminile. I volumi vengono riconfigurati. Il micro diventa macro e viceversa. L'armonia si sprigiona da scontri e cacofonie: scarpine aggraziate ma pelose e robusti Wellington, sete fragili e maglie compatte, quadri utilitari e fiori elitisti.
Sorpresa. Oggetti persi, oggetti trovati, annodati ai gioielli. Un accumulo lucido di casualità, come le figure femminili nei primi disegni di David Salle, seducente nelle pose, scarabocchiate in gesti improvvisi. L'umanità del tocco, espressa da donne che agiscono invece di posare.
La loro urgenza di far le proprie cose, di assemblare, smontare e riassemblare è giocosamente infantile. Dada, forse. Spontanea, sempre. La bellezza come atto giocoso, e in quanto tale sovversivo.
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